"gli eroi son tutti giovani e belli"
Francesco Guccini, La Locomotiva, 1972 Radici
Ossuto. Emaciato. Anche un poco ingobbito. Quegli arti lunghi e magrissimi, che poi nel gioco lo caratterizzano per moti e movimenti tutti suoi, sembravano infilarsi in un tronco addirittura più stretto del diametro della sua testa. Scheletrico. Lo sguardo a volte torvo, più spesso aperto e gioviale, corvino, mediterraneo, intenso luccicava dentro un profilo deciso, spigoloso. Un profilo scolpito per un volto bellissimo, dagli zigomi alti, armonioso, un profilo decisamente slavo, da attore del cinema iperrealista tzigano di Emir Kusturica. Quel volto sapeva pure intenerirsi in imprevedibile dolcezza se all'improvviso si apriva ad un sorriso.
Quando di punto in bianco si è prospettata l'ipotesi di dar nuova vita ad una sezione del sito, dedicata al racconto di un idolo del basket italiano, ognuno il suo, da par suo, per ogni utente del forum, ho pensato che avrei fatto tanta fatica a decidermi tra Michael Ray Sugar Richardson e Sasha Danilovic. Avevo fin lì considerato solo chi avevo visto giocare live. Un attimo dopo però ho pensato anche a chi più di tutti (ovviamente Celtics esclusi) avesse abitato i miei sogni e nutrito la mia immaginazione. La scelta allora è stata immediata.
C’è un intreccio virtuoso tra lui e alcuni dei miei idoli e giocatori preferiti, da Danny Ainge a Drazen Petrovic, da Arvydas Sabonis a Nikola Jokić, da Brunamonti a Caglieris, da Dino Radja a Mirza Delibasic, c’è qualcosa che in lui converge e da lui poi s’irradia ancora. Non c’è un giocatore e non c’è un uomo, e con lui è davvero difficile scindere le due entità nella simultaneità dello stesso essere, che io abbia inseguito e “studiato” più di Krešimir Ćosić. Krešo. Il vescovo.
Ho conosciuto Ćosić (inteso come appreso della sua esistenza) quando lui diventa allenatore della Virtus Bologna nel 1987, ero un giovane tifoso delle Vu-nere e dei Celtics, e di niente altro, avevo già abbandonato l’interesse per il calcio, andavo alle medie, suonavo male la chitarra, disegnavo caricature, giocavo a pallacanestro in palestra e in cortile da quando finivo i compiti fino a quando faceva buio. Il 1987 fu per la Virtus un’annata interlocutoria (oddio, fu balorda dovrei dire se penso che ai playoff venne eliminata al primo turno dalla rivale per antonomasia, la Fortitudo neopromossa dalla A2) ma fu un’annata fondamentale per scoprire Ćosić per chi come me, dieci anni prima, era troppo piccolo per poterlo ammirare da giocatore e così farmi risalire nel tempo nei racconti, letti e ascoltati, fondamentalmente, di quello che senza margini di discussione veniva definito un FE-NO-ME-NO. Solo più di recente per le immagini (anche in bianco e nero) ho visto poi quale fenomenale talento abitasse quelle quattro ossa. Nel biennio 1978-1980 il vescovo aveva quindi indossato la canotta bianca e nera della Virtus Bologna e aveva predicato basket ogni santissima sera. Due anni e due scudetti. Così. Come una chimera.
Ma che razza di giocatore era?
Ćosić è stato molto semplicemente un giocatore sensazionale, uno di quelli che hanno cambiato la storia dello sport. Un Arvydas Sabonis ma 10 centimetri più corto, molto più leggero e con un corpo diverso, più nervoso, più elettrico. Un Nikola Jokić più magro e più sgusciante, con lo stesso talento per il passaggio smarcante, con la stessa vocazione a giocare dentro e fuori, forse più concreto e meno appariscente. Bello!
Ćosić era alto 210 centimetri, era ufficialmente un centro, ma poteva ricoprire tutti i ruoli, qualcuno racconta che prima di lui non si era mai visto uno così alto condurre un contropiede, guidare un attacco, anche dal palleggio. Era un giocatore moderno molto in anticipo sui tempi, perché era in grado di fornire assist come le migliori guardie, tirare dalla media e lunga distanza come i migliori attaccanti o stoppare i tiri e giocare in post basso come i lunghi più forti e dominanti.
È stato il primo giocatore che giocava in post alto (nel senso che faceva del post alto il fulcro del gioco, di tutto il gioco), sapeva dribblare dal palleggio, oppure tenere la palla con una mano in alto sopra il difensore e indicare ai suoi compagni cosa fare, come muoversi. Poi, poteva fulminare la difesa con un assist che tagliava l’area oppure saltare per un tiro in sospensione molinando le sue gambe come per arrampicarsi più in alto. Un modo tutto suo di muovere quei suoi arti sottili, flessuosi e, solo apparentemente, gracili.
Ćosić è stato il primo centro capace di dispensare gioco, di essere lui innanzitutto il centro del gioco.
Allora, e vado con un ordine tutto mio, arriva a Bologna che ha trent’anni, in un’epoca dove averne già trenta significa essere vicini alla fine della carriera e non all’apice. Quella stessa estate a Manila ha vinto l’oro ai mondiali al fianco di Kićanović, Delibašić e Dalipagić, lui è il faro di una formidabile Jugoslavia guidata dal professore Aza Nikolić e ha battuto in finale l’URSS del colonnello Aleksandr Gomel’skij. In quei mondiali, il Brasile di Oscar precede l’italia di Giancarlo Primo. L’avvocato Porelli lo porta a Bologna dopo aver ingaggiato un duello all’ultimo dollaro con la pallacanestro Udine.
Arriva e vince.
Nella finale scudetto del 1979, la Virtus che trionfa al Palalido contro il Billy di Dan Peterson, la cosiddetta "banda bassotti" con D’Antoni e Kupec, gioca un’altra pallacanestro. Per la Virtus, oltre Ćosić, c’erano Caglieris, Valenti, Generali, Villalta, Bertolotti e Owen Wells. Terry Driscoll, allenatore di quella Virtus, predicava zone sperimentali come la 3-2, attacchi manovrati e poteva tenere in campo tre uomini sopra i 205 centimetri con Villalta, Generali e il Vescovo, lui giocava ala piccola, gli altri "tagliavano" sottocanestro per riceverne l'assistenza, lui dispensava la benedizione. Canestro. Canestro. Canestro. E quei passaggi erano deliziosi. Belli. "Prima di quella finale – aveva raccontato l’avvocato Porelli, presidente di quella Virtus - dico a Ćosić: fai attenzione, Krešimir, che quelli del Billy picchiano, giocano duro. Sono preoccupato. Lui mi guarda e con un'aria serafica mi fa vedere il muscolo del braccio destro, dove... il muscolo non c'era. Vedi, avvocato, che forza? E allora tu devi stare tranquillo". La forza era la serenità di Ćosić. La sua grande luce. Qualunque cosa facesse aveva una ragione e aveva un senso. Il vescovo era veramente un vescovo.
Nell'estate del 1968, appena ventenne e reduce dagli europei del 1967, aveva fatto parte di una selezione europea, incontrando il finlandese Veikko Vainio. Quell’incontro gli cambiò la vita. Vainio, reduce da un grande europeo che gli era valso la nomina dentro il primo quintetto della manifestazione, era uno studente della Brigham Young University, gli parlò della vita al college e della vita dei mormoni. Ćosić, che fino ad allora era una sorta di enfant terrible, fumatore e "amante della vita", fu colpito dal racconto e decise di trasferirsi nello Utah.
In tre anni con i Cougars, sempre con la maglia numero 11, ha segnato oltre 19 punti e quasi 12 rimbalzi di media. Era un idolo per i tifosi, l'uomo che ha permesso di costruire una nuova arena con una capacità di oltre 20.000 spettatori. È stato il primo non americano mai scelto nella squadra All-American. Frequentando la Brigham Young University, si converte alla religione mormone, ricoprendo il ruolo di vescovo e poi gli viene conferito il ruolo di missionario che continuerà ad esercitare tornato in Europa. Si preoccuperà della traduzione in croato dei testi mormoni, continuerà a predicare. All’inizio della sua esperienza a Bologna, in omaggio alla fede, non vuole giocare la domenica. Poi si adegua alle logiche del professionismo, si presenta in palestra solo dopo la funzione, in giacca, cravatta e scarpe da pallacanestro. Non si allena nella rifinitura. Ma la sera domina.
A BYU era diventato il miglior realizzatore e rimbalzista della storia dell’ateneo. La sua maglia numero 11 viene ritirata e penzola accanto alla 22 di Danny Ainge, che militerà con i Cougars tra il 1977 e 1981, superandolo nei punti realizzati. Fu scelto due volte: nel draft 1972 da Portland e dai Los Angeles Lakers nel 1973, ma non giocò mai nella NBA. Nel 1973 ritorna a casa a Zara e ci rimase fino al 1976, vincendo altri due titoli nel 1974 e nel 1975. Soprattutto, dopo due medaglie d'argento agli EuroBasket del 1969 e del 1971, con la Jugoslavia conquista la prima medaglia d'oro nel 1973 a Barcellona con Mirko Novosel in panchina. Il merito di Novosel è stato certamente l'inserimento di giovani talenti come Dragan Kicanovic, Drazen Dalipagac e Zoran Slavnic, ma l'anima di quella squadra era Ćosić. Lo sarà fino a Mosca 1980, dove la Jugoslavia vinse l'oro olimpico, Ćosić avrebbe portato questa squadra ai titoli europei nel 1975 e 1977, un titolo mondiale nel 1978, un argento ai Mondiali del 1974 e un argento olimpico a Montreal 1976. Dal 1976 al 1978 fu pure giocatore-allenatore dell'Olimpija Ljubljana senza vincere titoli.
Zara era casa, scrivevo, perché è dove cresce dall’età di due anni e fino alla partenza per gli USA, invece Zagabria era il luogo in cui nacque nel 1948 il 26 di novembre. A Zagabria ci torna quando Novosel iniziò a costruire il suo grande Cibona nei primi anni '80, vide in Ćosić il tassello da cui partire. Il 16 marzo 1982 il Cibona vinse a Bruxelles il suo primo trofeo internazionale dalla Korac del 1972, la Coppa delle Coppe contro il Real Madrid di Mirza Delibasic. Una vittoria combattutissima maturata dopo i tempi supplementari, finisce 96-95 con 22 punti di Ćosić. Il Cibona quell’anno vinse anche il suo primo campionato jugoslavo e nel 1982-83 la squadra fece il suo debutto nella Coppa Campioni. Record di 0 vinte e 10 perse. Il Vescovo si ritira. Nell'estate del 1984 arriva Drazen Petrovic, anche qui la missione era compiuta.
Krešimir Ćosić certamente ha vinto più medaglie che qualsiasi altro giocatore nella storia dell'ex-Jugoslavia di basket: ben 14. Nelle Olimpiadi, ha fatto 2° (1968), 2° (1976) e 1° (1980). Nei Mondiali, ha fatto 2° (1967), 1° (1970), 2° (1974), 1° (1978). Negli Europei, ha fatto 2° (1971), 1° (1973), 1° (1975), 1° (1977) e 2° (1981). Fanno un totale di 12 finali in questi tre eventi del basket mondiale. Nessuno credo abbia fatto di meglio pure militando sotto altre bandiere.
Anche come coach lascerà il segno, non tanto per i risultati sul campo ma per l'impegno come educatore, l'insegnamento, l'umanità. Kreso Ćosić è stato nominato allenatore della nazionale jugoslava nel 1984, appena ritiratosi da giocatore. Del resto allenava già giocando. Debutta all'EuroBasket tedesco del 1985 con una squadra forte (Drazen Petrovic, Cutura, Vrankovic, Radovic, Knego, Nakic, Vucevic) ma finisce settimo. Ai Mondiali del 1986 in Spagna, porta un ragazzo di 18 anni di nome Vlade Divac. Nella semifinale contro l'URSS con il punteggio di 85-82 per la Jugoslavia, a un passo dalla vittoria, Divac commette un grave errore di ingenuità che consente a Valters una tripla che porta il match ai tempi supplementari e alla sconfitta della Jugoslavia. Ricordo perfettamente quel momento. Divac è avvilito e vuole abbandonare la manifestazione per tornare a casa. Piange disperato. Il giorno dopo, nella partita per il terzo posto, il titolare del ruolo di centro era Vlade Divac.
Per l'EuroBasket del 1987 ad Atene, Ćosić fece esordire i giovanissimi Toni Kukoc, Dino Radja e Aleksandar Djordjevic, schierandoli vicino a ventenni come Vlade Divac, Zarko Paspalj, Goran Grbovic. Arrivò il bronzo!
Passerà da Atene come coach per poi trascorrere gli ultimi anni della sua vita negli Stati Uniti, come diplomatico croato. Impegnandosi con tutte le sue energie per contribuire a sanare i conflitti nei balcani. Muore di cancro a Baltimora, il 25 maggio 1995, a soli 46 anni. La notizia fu un colpo al cuore!
A Zara, da qualche anno, c'è una piazza e una statua a suo nome, la nuova Arena gli è stata intitolata. La Coppa di Croazia si chiama "Krešimir Ćosić Cup". Fu sepolto nel cimitero Mirogoj di Zagabria, a pochi metri da Drazen Petrović. Due immortali leggende.
Danny Ainge, compagno di squadra di Petrović a Portland, leggenda di Brigham Young come Ćosić, dopo Ćosić, in una missione di scouting in Croazia nel 2015 (l'inverno prima di chiamare al draft Ante Zizic) in un tweet unisce i due immensi talenti croati, scrivendo: "Due dei miei giocatori e persone preferite di ogni tempo". Segnando il virgolettato con due coppie di impronte plantari, per tracciare il solco indelebile che tanto il vescovo Kreso, quanto Drazen, in modo differente, ci hanno definitivamente lasciato.
Un link al documentario