Facile parlare con il senno di poi, ma le sensazioni in quel training camp di Roma erano quelle di un ambiente positivo, unito dalla voglia di vincere, dove lavoro duro e allegria si fondevano per un obbiettivo comune. Insomma, l’impressione è che la mistica dei Celtics avesse finalmente fatto capolino dopo anni bui, dei quali ricordiamo una frase di Rick Pitino: “C’è una negatività qui che fa schifo”, disse il coach con la brillantina. Possibile che l’arrivo di un solo giocatore abbia portato il sole dopo anni di notte fonda? Sì, se si chiama Kevin Garnett. KG non ha portato con se a Boston solo i suoi 2,11m, il suo atletismo, il suo talento offensivo e difensivo, ma un’aura di energia positiva, gioia di vivere, mentalità vincente che ha contagiato tutti, fatto diventare Ainge executive dell’anno e Rivers coach campione NBA. Ovvio che la coppia coach – GM, contestatissima in passato, anche dal sottoscritto, non era incompetente ieri così come non è fuoriclasse oggi. La lezione è che la NBA è un players’ game, è fatta dai giocatori, e gli allenatori contano ma fino ad un certo punto. L’ esperienza Phil Jackson l’ha insegnato. Certo, la mentalità difensiva portata da Tom Thibodeau ha inciso in maniera determinante, ma cosa sarebbe successo se il suo condottiero in campo non fosse stato “The Big Ticket”? Palese l’effetto positivo che KG ha avuto su Pierce, trasformatosi da giocatore egoista e offensivo a eccellente difensore sull’uomo.
Straordinaria la capacità del team biancoverde nel gestire la pressione. I Celtics sono partiti con i favori del pronostico, anzi, avrebbero deluso con un qualunque altro risultato che non fosse stato il titolo NBA. Questo avrebbe potuto tagliare le gambe a chiunque, non a questa squadra che ha mostrato una forza mentale invidiabile, la differenza che passa tra il giocatore di talento e il campione. Il fatto straordinario è che la squadra, sebbene concentrata, non ha mai attraversato un momento di tensione o nervosismo, se non prima di gara 7 contro gli Hawks, forse l’unico vero momento difficile della stagione per Boston. Questo significa grande forza mentale. “Dobbiamo solo giocare, divertirci, essere concentrati e aggressivi e non pensare ad altro”: frasi più volte dette dai giocatori, frasi che sembrano banali ma che se messe in pratica ti possono dare motivazione da vendere, e questo vale non solo nella NBA ma nella vita di tutti i giorni.
Stravinta la regular season, i Celtics forse non si aspettavano al primo turno dei playoffs una resistenza di Atlanta così veemente, soffrendo le gare fuori casa: problema prettamente psicologico. L’impatto con la postseason è più traumatico e la pressione aumenta, ma la forza di reagire i verdi l’hanno avuta. La vittoria in gara 7 li ha in parte sbloccati perché poi contro i Cavs hanno giocato meglio, anche in trasferta, seppure non al top. Nei primi turni i biancoverdi hanno scoperto che Rondo è così tosto da elevare il suo rendimento ai playoffs, che la panchina in ogni gara sa trovare il suo “campione”, e che purtroppo Ray Allen era in profonda crisi esistenziale cestistica. Tolte le castagne dal fuoco grazie allo stellare Pierce di gara 7 contro Lebron, nelle Finali di Conference contro Detroit si sono rivisti i Celtics dominatori della stagione regolare, quelli che entravano nella mente dei propri avversari, sfiancandoli, grazie ad una difesa che ti levava praticamente l’ossigeno da respirare. La consapevolezza di poter vincere il titolo probabilmente è arrivata nella vittoria in trasferta di gara 3, la prima, che faceva seguito alla sconfitta casalinga di gara 2 dove i verdi avevano pagato un po’ la stanchezza contro i più riposati Pistons. E guarda caso il tutto è coinciso con il ritorno in auge di Ray Allen, che con il suo tiro “apriva” letteralmente l’attacco biancoverde, come si dice in gergo.
And then, bring on the Lakers. Doveva essere una serie combattutissima, all’ultimo sangue, ed invece i gialloviola in Finale praticamente non ci sono mai entrati. Bryant e soci hanno giocato solo a sprazzi, vinto gara 3 e 6 più per un momento di esaltazione agonistica che per altro. Eppure i loro momenti buoni li hanno avuti, come nel recupero di gara 2 dal -24 al -2 o nel primo tempo di gara 4, quella del comeback Celtics. Se solo i Lakers avessero mostrato la stessa energia dei turni precedenti sarebbe stata tutt’altra battaglia. Ma tant’è, perché i Celtics con la loro difesa ti annichiliscono mentalmente, come detto. Eppure, le premesse di gara 6 non erano delle migliori. L’aereo che arriva la sera dopo gara 5 per un guasto a quello che originariamente doveva portare a casa i biancoverdi, Pierce, Rondo e Perkins acciaccati, Ray Allen con il figlio malato, nessun allenamento, insomma vicende preoccupanti, ma non per loro. Troppo forte la voglia di vincere, mostruosa l’intensità, e la pratica è stata chiusa nel secondo quarto. |