Alzi la mano chi sa dire cosa accadde il 25 aprile 1950. E il 13 aprile di sette anni dopo. O il 17 marzo 1963. O, meglio ancora, il 26 dicembre 1964. Quale giocatore inventò il tiro in sospensione? E il passaggio dietro la schiena? E chi ideò il logo dei Celtics? Quale grande Presidente americano era tifoso dei Verdi? Chi nacque a Monroe, Louisiana, il 12 febbraio 1934? Risponde a verità affermare che uno dei più grandi giocatori della storia fu inizialmente scartato da Red Auerbach, ma per un caso unico di fortuna sfacciata, indossò la casacca verde già poche settimane dopo? Chi erano i temutissimi Jungle Jim e Sleppery Sam?… Come? Non lo sapete? E dite di essere tifosi dei Boston Celtics? No, amici miei, così proprio non va! Un sostenitore autentico dei Miti del Massachussets non può ignorare tutto questo! Se volete sentirvi davvero Celtici al 100%, dovete rimediare assolutamente. Tra i tanti modi, forse il più semplice sarebbe acquistare l’ultima fatica editoriale di Lew Freedman, “Dinastia Celtics” recentemente pubblicata dalle Edizioni Libreria dello Sport.
Oltremare, l’edizione originale in lingua inglese è apparsa ai più pressoché superflua (anche se, a mio modo di vedere, niente che riguardi i Nostri deve essere considerato inutile), perché preceduta da almeno una quarantina di opere letterarie che hanno già sviscerato abbondantemente ogni singolo evento di vita passata del club più vetusto e carico di gloria della N.B.A. Diverso il discorso per l’edizione italiana: non rammento qualcosa di simile pubblicato in Italia, tranne un trattato tecnico opera del famigerato Coach Rick Pitino…. E poiché non tutti hanno familiarità con l’albionico idioma, ecco che “Dinastia Celtics” colma una lacuna gravissima nel panorama editoriale sportivo italiano.
I Freedman: tipica famiglia bostoniana, padre, madre e tre figli (due fratelli ed una sorella), cui sovente si aggregava il fratello della madre, erano abitualmente usi a muoversi in branco dalla periferia della Beantown per puntare senza indugi verso il West End e, precisamente, il 150 di Causeway Street, dove era ubicato il leggendario Boston Garden (ma ci credete che il più grande giocatore di sempre disse del Tempio: «Era proprio un postaccio»?). Il piccolo Lew assistette al suo primo incontro nel 1960, alla tenera età di 9 anni, e da allora pare ne abbia persi pochissimi. La sua Fede si temprò proprio nel periodo più fulgido della storia del Leprechaun, durante il quale egli ebbe non solo la fortuna di veder giocare la più grande squadra di sempre, ma soprattutto di conoscere personalmente i personaggi (dirigenti, tecnici e giocatori) che diedero vita alla Dinastia. Quella che per otto anni consecutivi annichilì qualunque avversario, obnubilandone le capacità tecniche con il virtuosismo di Vaclav Nijinsky, schiantandone qualsiasi resistenza in campo con la brutalità di un caterpillar ed azzerandone ogni possibilità di conquistare l’agognato Anello, simbolo immarcescibile e incontestabile di supremazia nel torneo più spettacolare del mondo.
Leggendo i 24 capitoli che compongono il libro, seguiremo lo sviluppo, inizialmente lento e difficoltoso, poi caratterizzato da un incedere sempre più rapido e deciso, del progetto fortemente voluto da Walter Brown, il primo Presidente che ebbe tra i molti meriti quello indiscutibile di aver condotto al timone dei C’s il più vincente Coach della storia: Arnold “Red” Auerbach, che Freedman non esita a descrivere come «un furfante, un manipolatore, fortemente leale, spietato e sempre alla ricerca di un modo per primeggiare sugli altri (…) brusco, severo ed esigente (…) una persona molto semplice e allo stresso tempo molto complicata, ma soprattutto un assoluto genio del parquet». Un genio che, scopriremo, ebbe tra i compagni di corso al college, un certo Isaac Asimov. «Un uomo del suo tempo (…) che nemmeno in seguito, nella sua vita, si preoccupò mai di affidarsi ad un computer per restare aggiornato su tutto ciò che accadeva nella N.B.A.». Un genio, ma anche un dittatore che non perdeva occasione per rammentare «C’è posto solamente per una persona al timone del comando, e quella persona sono io». Concetto che si abbinò perfettamente alla voglia di primeggiare. Sempre e comunque. Al punto che Bill Russell disse una volta che Auerbach «pensava a vincere più di quanto io pensavo a mangiare quando ero piccolo»… Alan Norman Cohen, ex comproprietario del Team per un decennio, affermò addirittura che «Red potrebbe veramente fare il Presidente degli Stati Uniti, tale è la sua capacità di capire cosa fa succedere le cose».
Con tali premesse, esagerate o meno, era inevitabile che una volta trovato l’amalgama giusto, la squadra guidata da questo figlio di un immigrato bielorusso di fede ebraica, divenisse irresistibile o quasi: esattamente quanto accadde nella realtà.
Una volta scelto l’allenatore, comincerà il paziente e certosino lavoro di assemblaggio della squadra, una squadra che rivelerà la propria unicità universale, non solo per la straordinaria serie di trionfi, ma anche perché, di fatto, il roster rimase invariato del tutto o quasi negli anni. Immaginate uno scenario simile oggigiorno: sarebbe come avere nello stesso team per un paio di lustri Rajon Rondo, Ray Allen, Paul Pierce, Kevin Garnett, Kendrick Perkins, Glen Davis, Shaquille O’Neal e magari pure Andre Iguodala e Chauncey Billups... Improponibile non solo per questioni “meramente” economiche, ma anche perché, come recita l’adagio, quando ci sono troppi galli a cantare nel pollaio, non fa mai giorno. Pensate a come si sfilacciò rapidamente il rapporto tra Kobe Bryant e Shaquille O’Neal in quel di Los Angeles…
Il primo fuoriclasse ad arrivare (ma come e quando egli firmerà per Brown è tutt’altra storia…) sarà un giovane play di origini francesi dalle braccia smisurate, i cui record di franchigia cominciano a cadere solamente oggi, ad opera di Rajon Rondo, nuovo Genio del parquet incrociato: parliamo di Bob Cousy, il Garrincha del basket, uno dei pochissimi in grado di tenere testa al mitico Red e alle sue sfuriate. Seguiranno Bill Russell, K.C. Jones, Sam Jones, Tom Heinsohn, Bill Sharman, Ed Macauley, Frank Ramsey, Jim Loscutoff, John Havlicek e molti altri.
Freedman, non si limita ad una cronologia storica, ma arricchisce il tutto con una sequenza di fatti ed avvenimenti gustosi che ci aiutano a comprendere meglio anche l’evoluzione del campionato più bello del mondo. Leggete, a questo proposito, il capitolo “I giorni burrascosi della prima NBA” e la descrizione relativa all’ambiente nei palazzetti (in “un periodo in cui era più facile risolvere le questioni con i pugni piuttosto che con gli avvocati”), alle intimidazioni subite dai giocatori (sputi, lanci di monetine, invasioni di campo neanche troppo sporadiche con annesse scazzottature, mai soggette a squalifica: adesso, invece, ci si preoccupa soprattutto di come i giocatori posizionano durante le partite il logo NBA cucito sulla fascia tergisudore che cinge la testa …).
In un altro capitolo, l’Autore svela alcuni piccoli segreti e altre grandi manie dei C’s dell’epoca, sfruttando confidenze raccolte tra gli stessi giocatori. In certi momenti viene quasi da ridere, perché emerge la semplicità di carattere di molte stelle della squadra, che certo non guadagnarono le cifre percepite dai loro successori del XXI Secolo e che provenivano da realtà molto più povere ed arretrate delle attuali. Uno di loro, proveniente da una famiglia contadina che non fruiva neppure dell’energia elettrica e dei più elementari servizi igienici, se ne uscì una volta con questa osservazione: «Harvard Square è circolare, non è una piazza!». Leggendario, poi, lo stile di guida di Tom “Satch” Sanders, del quale era altrettanto celebre la paranoia: Sanders era letteralmente terrorizzato dall’eventualità che sconosciuti potessero entrare nella sua camera d’albergo. La quale, inevitabilmente, si tramutava in una specie di Fort Alamo, rendendo così impossibile l’accesso (ma anche l’uscita) al malcapitato compagno di stanza, con conseguenze talvolta fantozziane. Epici anche gli scherzi organizzati ai danni del burbero Auerbach, come quello del “cappello di feltro rosso”, raccontato da Cousy, o del sigaro esplosivo, preparato e tenuto in stand by per anni da Tom Heinsohn.
Una parte preponderante del libro è dedicata invece ad alcuni dei futuri Hall of Famers bostoniani, da Russell a Cousy, a K.C. Jones, Sam Jones, Havlicek, Heinsohn, Ramsey, Loscutoff e Sharman. Freedman colloca le loro storie nel contesto non solamente sportivo, ma anche sociale dell’epoca: che non fu certamente facile per i giocatori afroamericani, vittime del razzismo e del segregazionismo ben più di quanto immaginabile, costretti a dormire e a mangiare in alberghi e ristoranti “dedicati”, o ad emigrare dai cosiddetti quartieri “in” perché invisi a quegli stessi residenti bianchi che poi pagavano il biglietto per vederli giocare al Garden. La fortissima personalità di Bill Russell, uomo poco disponibile a dare confidenza agli estranei, ma assolutamente deciso a non rinunciare mai ai propri princìpii, fu messa ripetutamente alla prova in diverse circostanze, ma mai nello spogliatoio dei C’s, dove il colore della pelle non è mai stato una discriminante: al punto che Russell divenne il primo allenatore afro della storia della Lega. La sua investitura avvenne al termine di un’epica finale con i 76ers di un Wilt Chamberlain «basito e depresso» dopo che Cousy & Co. travolsero gli avversari permettendo a Red di accendere il suo ultimo, immancabile, sigaro della vittoria. Tanto per dare un’idea del valore di Russell (che rendeva almeno 10 centimetri e circa 20 kg. al rivale di sempre), pensate che nell’occasione si “limitò” a realizzare 25 punti ed a catturare 32 rimbalzi in 48 minuti….
Last, but not least, uno degli altri personaggi ricorrenti merita una citazione a parte: si tratta di Johnny Most, per ben 37 anni radiocronista emerito dal Garden. Pochi, forse, tra i giovani tifosi italiani dei C’s, ne hanno sentito parlare, ma l’impatto delle sue radiocronache (regolarente “abbellite” artatamente per via dello sconfinato amore verso la squadra) fu, sul pubblico bostoniano, soprattutto negli Anni Cinquanta, paragonabile alle gesta stesse della squadra. Non per nulla, Danny Ainge lo definì il 13° uomo in campo per i Celtics. Most non fu un semplice radiocronista: fu IL narratore delle gesta dei Celtics. Diplomato alla DeWitt Clinton High School di New York, veterano plurimedagliato della Seconda Guerra Mondiale, nipote di un celebre filosofo anarchico di origine tedesca, Most era assolutamente parziale, ben oltre i limiti del parossismo (un po’ come i telecronisti-tifosi che effettuano le telecronache per una nota Pay-Tv italiana, ma elevato all’ennesima potenza). Capace di interrompere la propria radiocronaca, preannunciando che avrebbe preso a pugni un tifoso avversario, per poi tornare al proprio lavoro come se nulla fosse accaduto. Capace di sputare la… dentiera a causa della foga espressiva, ma anche di afferrarla al volo prima che precipitasse dall’alto della sua postazione sul parquet. Strenuo difensore delle gesta dei giocatori bostoniani, cui tutto era concesso, sempre e comunque, Most fu nemico giurato dei Detroit Pistons, forse più che degli stessi Lakers, non risparmiò frecciate polemiche ed attacchi ripetuti a non pochi campioni, colpevoli ai suoi occhi del peggiore dei reati: non vestire la casacca verde. Tra questi, Doc J, Magic, Kareem, ma anche celebri “mazzolatori” come la Premiata Ditta Ricky Mahorn-Jeff Ruland, che con Greg Ballard costituiva il trio di picchiatori dei Washington Bullets e Kurt Rambis, che Most amava identificare come «un qualcosa strisciato fuori dalle fogne»… Ma nessuno a Boston potrà mai dimenticare il suo urlo, «Havlicek stole the ball! It’s all over! Johnny Havlicek being mobbed by the fans!» che concluse di fatto gara 7 della finale del 1965 contro i Philadelphia 76ers. Un urlo liberatorio, emesso con quel poco di fiato che ancora gli restava, giunto a conclusione di una serie finale interminabile e di un incontro da leggenda e che costituisce un po’ la summa maxima del contenuto di “Dinastia Celtics”: quello che tutti noi seguaci del Leprechaun da sempre rivendichiamo, partigiani alla Johnny Most, come il nostro marchio di fabbrica: il Celtics Pride.